Insussistenza del fatto e onere della prova nel licenziamento disciplinare

L’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015 disciplina la tutela reale attenuata, limitandola alle sole ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa (c.d. licenziamento disciplinare) in cui sia direttamente dimostrata in giudizio la non sussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento.

Per quanto attiene alla insussistenza del fatto contestato la norma attuativa della legge n. 183/2014 introduce, dunque, la previsione del riferimento esclusivamente al “fatto materiale” (cfr. Cass. civ., Sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669), eliminando, pertanto, la discrezionalità del giudice rispetto alla individuazione della insussistenza del “fatto giuridico”, vale a dire la mancanza di colpevolezza, come pure la non esatta corrispondenza fra la contestazione disciplinare e il fatto.

In questo senso il legislatore delegato ha fatto proprio il recente portato giurisprudenziale della Suprema Corte che, con Cass. civ., Sez. lav., 6 novembre 2014, n. 23669, ha espressamente affermato: «Il nuovo articolo 18 ha tenuto distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché occorre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato».

La nuova formulazione, dunque, fa venire meno l’occasione di pronunce giurisprudenziali come quella contenuta nella ordinanza del Tribunale di Bologna del 15 ottobre 2012 che ha ritenuto illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore ordinando la reintegrazione pure a fronte della dimostrata sussistenza del fatto materiale contestato. Nella pronuncia menzionata, infatti, si è affermato che l’art. 18 della legge n. 300/1970, pur prevedendo espressamente la reintegra soltanto in caso di «insussistenza del fatto contestato», invero parlando di “fatto” fa necessariamente riferimento al “fatto giuridico” inteso come «il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo». Sul punto, peraltro, l’ordinanza del giudice del lavoro di Bologna insiste sottolineando come non sia possibile ritenere «che l’espressione “insussistenza del fatto contestato” utilizzata dal legislatore facesse riferimento al solo fatto materiale, posto che tale interpretazione sarebbe palesemente in violazione dei principi generali dell’ordinamento civilistico, relativi alla diligenza e alla buona fede nell’esecuzione del rapporto lavorativo, posto che potrebbe giungere a ritenere applicabile la sanzione del licenziamento indennizzato, anche a comportamenti esistenti sotto l’aspetto materiale ed oggettivo, ma privi dell’elemento psicologico, o addirittura privi dell’elemento della coscienza e volontà dell’azione». A tal fine si precisa che «la qualificazione e la valutazione di tale fatto, come di qualunque fatto storico, richiede la contestualizzazione del fatto medesimo e la sua collocazione nel tempo, nello spazio, nella situazione psicologica dei soggetti operanti, nonché nella sequenza degli avvenimenti e nelle condotte degli altri soggetti che hanno avuto un ruolo nel fatto storico in esame».

Tuttavia, un recente posizionamento della Suprema Corte ha statuito, pur con riguardo al regime sanzionatorio delineato dall’art 18 dello Statuto dei lavoratori, ma con un chiaro riferimento al nuovo regime normativo del D.Lgs. n. 23/2015, che «quanto alla tutela reintegratoria, non è plausibile che il legislatore, parlando di “insussistenza del fatto contestato”, abbia voluto negarla nel caso di fatto sussistente ma privo del carattere di illiceità, ossia non suscettibile di alcuna sanzione, restando estranea al caso presente la diversa questione della proporzione tra fatto sussistente e di illiceità modesta, rispetto alla sanzione espulsiva. In altre parole la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale e dà perciò luogo alla reintegrazione», così testualmente Cass. civ., Sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20540, in senso conforme Cass. civ., Sez. lav., 13 ottobre 2015, n. 20545 che ribadisce il principio per cui il fatto privo di rilevanza giuridica deve considerarsi «inesistente».

D’altra parte, nel nuovo scenario regolatorio disegnato dall’art. 3 del D.Lgs. n. 23/2015, il fatto materiale non è indicizzato rispetto ai profili di gravità o di proporzionalità, né collegato a ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, escludendo, quindi, ogni valutazione discrezionale del giudice anche in merito alla sproporzione del licenziamento rispetto alla effettiva gravità del fatto contestato (sebbene un margine di operatività, anche sul piano sanzionatorio, sebbene indiretto, venga mantenuto dai contratti collettivi, in quanto l’applicazione integrale della parte normativa dei contratti collettivi è condizione essenziale, fra l’altro, per la fruizione delle agevolazioni e degli incentivi in materia contributiva e non solo; più difficile, invece, ma non esclusa, appare la possibile azionabilità della lesione diretta dei diritti del lavoratore rispetto ad una azione risarcitoria per la violazione delle norme contrattuali collettive).

La norma, per come scritta, sancisce una innovativa inversione dell’onere probatorio rispetto alla giustificatezza del licenziamento intimato: seppure l’art. 5 della legge n. 604/1966 stabilisce che «l’onere della prova della sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento spetta al datore di lavoro», l’art. 3, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015, per come la norma testualmente è scritta («nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore»), sembra sancire una innovativa inversione dell’onere probatorio rispetto alla giustificatezza del licenziamento disciplinare intimato al lavoratore.

A dimostrare la “insussistenza” del fatto materiale contestato, infatti, ha interesse esclusivamente il lavoratore licenziato e non il datore di lavoro, sul quale grava, in via generale, l’onere della prova in materia di licenziamenti.

Il D.Lgs. n. 23/2015, quindi, sembrerebbe fare carico al lavoratore della “dimostrazione diretta” in sede processuale della non sussistenza del fatto addebitatogli al fine di poter ottenere la reintegrazione, sia pure nella tutela reale attenuata delineata dal legislatore delegato.

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