La delicatezza delle prestazioni di assistenza e consulenza rese in materia di lavoro, data l’incidenza e il rilievo costituzionale della materia trattata, impone anzitutto una tutela serrata (anche di tipo penale) nei confronti dei professionisti che esercitino abusivamente la professione di consulente del lavoro, che si invera nel disposto normativo contenuto nell’art. 348 c.p., così come modificato dalla legge 11 gennaio 2018, n. 3.
Il Ministero del Lavoro nella Lettera circolare n. 1665 del 13 novembre 2003 aveva già affermato che l’art. 348 c.p. è «una norma penale in bianco il cui precetto penale si completa, di volta in volta, con i contenuti descrittivi delle caratteristiche delle singole professioni» (Cass. Pen., Sez. VI, 11 luglio 2001, n. 448), profilo sancito anche dalla Corte Costituzionale, che pur avendo rigettato la questione di legittimità costituzionale della norma rispetto ai principi di tassatività e determinatezza, con la sentenza 27 aprile 1993, n. 199, ha argomentato la natura di norma penale in bianco, in quanto necessita, a fini integrativi, del ricorso a disposizioni normative extrapenali, le quali stabiliscono i requisiti oggettivi e soggettivi per l’esercizio delle professioni, come nel caso del consulente del lavoro.
D’altra parte, nella materia della consulenza del lavoro, l’art. 348 c.p. opera specifici effetti di tutela e di sanzione penalistica nei confronti, anzitutto, del consulente del lavoro che esercita individualmente la professione «sfornito del necessario titolo (diploma, laurea) o manchi dell’abilitazione prescritta, oppure non abbia adempiuto alle formalità richieste (iscrizione all’Albo)oppure ancora sia decaduto o sia stato sospeso o interdetto nell’esercizio della professione»: infatti, va rilevato che «l’abusività pur collegata in via immediata alla mancanza di abilitazione statale è concetto più ampio» che comprende le ipotesi ora cennate (Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 1151).
L’applicabilità di questa norma del codice penale deriva de plano dall’esigere l’art. 3 della leggen. 12/1979 un esame di abilitazione per il conseguimento del titolo, che è rilasciato «previo superamento di un esame di Stato» appunto. In tal senso, d’altro canto, si è espresso lo stesso Ministero del Lavoro con propria Circolare n. 65 del 27 maggio 1986 e, successivamente, più di recente, con la citata Lettera circolare del 13 novembre 2003.
Analogamente lo spettro operativo dell’art. 348 c.p., nel combinato disposto con l’art. 3 della legge n. 12/1979, si estende alle ipotesi di esercizio della professione in forme associate o societarie ovvero anche, stante la lettera dei commi 4 e 5 dell’art. 1, alle attività dei centri di elaborazione dati come confermato dalla recente pronuncia della Suprema Corte: «l’ambito del penalmente rilevante viene a configurarsi come assai più ampio ed esteso, in quanto viene ad essere ricompresa nella norma dell’art. 1 della legge n. 12/1979 anche l’attività svolta dai centri di elaborazione dati se non costituiti e composti con la presenza o l’assistenza di consulenti del lavoro». In effetti, «l’esercizio abusivo di una professione non lede solo l’interesse di una Amministrazione Pubblica a che la professione stessa sia esercitata da soggetti abilitati, ma anche quello circostanziato e diffuso degli appartenenti alla categoria, rappresentata dagli organismi esponenziali della stessa» (Cass. Pen., Sez. VI, n. 448 dell’11 luglio 2001; cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 16 luglio 2004, n. 31432).
D’altro canto Cass. Pen., Sez. Un., 23 marzo 2012, n. 11545 ha ampliato l’ambito di applicazione e i parametri di configurabilità del reato di cui all’art. 348 c.p., stabilendo che la fattispecie di reato in argomento si realizza non soltanto per lo svolgimento senza titolo, anche se occasionale e gratuito, di atti attribuiti in via esclusiva alla professione, ma anche per la realizzazione senza titolo abilitativo di atti che, sebbene non risultino attribuiti esclusivamente al professionista, sono tuttavia individuabili, in modo univoco, come specificamente pertinenti al soggetto abilitato all’esercizio della professione, sempreché gli atti vengano posti in essere in modo da rendere l’apparenza oggettiva di un’attività professionale svolta da un soggetto effettivamente abilitato (a tal fine rilevano, evidentemente, la continuità, l’onerosità e l’organizzazione, oltre alla mancanza di indicazioni chiare in senso contrario a quanto apparente).
Da ultimo, va evidenziato quanto affermato ulteriormente da Cass. Pen., Sez. VI, 28 febbraio 2013, n. 9725, secondo cui, fra l’altro: «È vero che l’art. 1 comma 4 della legge n. 12 del 1979, contenente le norme per l’ordinamento della professione di consulente del lavoro, prevede che le imprese considerate artigiane ai sensi della legge n. 860 del 1956, nonché le altre piccole imprese, anche in forma cooperativa, possono affidare l’esecuzione degli adempimenti in materia dl lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti a servizi istituiti dalle rispettive associazioni di categoria, ma deve escludersi che le medesime attività possano essere da tali associazioni di categoria “delegate”, in qualsiasi maniera, a terzi, pena l’aggiramento delle suddette norme stabilite a tutela dell’interesse a che ai cittadini possano essere garantite determinate prestazioni professionali solo da soggetti che hanno un minimo di standard di qualificazione».
In argomento, d’altro canto, è intervenuto il Ministero del Lavoro che con Circolare n. 17 dell’11 aprile 2013, richiamando le istruzioni fornite in precedenza con Lettera circolare n. 13649 del 23 ottobre 2007 e con Nota n. «limitarsi ad elaborazioni aventi valenza matematica di tipo meccanico ed esecutivo, quali la mera imputazione di dati (data entry) ed il relativo calcolo e stampa degli stessi, operazioni che non devono includere attività di tipo valutativo ed interpretativo».
Sul piano strettamente sanzionatorio chiunque abusivamente esercita la professione di consulente del lavoro è punito ora, dal 15 febbraio 2018, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni con la multa da euro 10.000 a euro 50.000 (art. 348, comma 1, c.p.).
Trova applicazione la più grave pena della reclusione da 1 a 5 anni e della multa da euro 15.000 a euro 75.000 nei confronti del professionista che ha determinato altri a commettere il reato di abusivismo professionale o ha comunque diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato (art. 348, comma 3, c.p.).
Alla condanna fa seguito la pubblicazione della sentenza e la confisca delle cose che sono servite o sono state comunque destinate a commettere il reato; se l’autore del reato esercita regolarmente una professione, la sentenza è trasmessa al competente Ordine, Albo o registro per l’applicazione dell’interdizione da 1 a 3 anni dalla professione regolarmente esercitata (art. 348, comma 2, c.p.).
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